26/06/2019

EU Directive on Unfair Trading Practices in B2B in the Agricultural Food Supply Chain



On 9 April the EU Council formally approved the directive and the legislative act was signed on 17 April 2019.  EU member states will have 24 months to introduce the new rules into national legislation. This will therefore be the next big stage in policing the agricultural and food supply chain; even if Brexit takes place this year then all trade with the EU will be ultimately governed by this for agricultural and food producers.
The Directive 2019/633  highlights the that whilst risk is inherent in all economic activity, agricultural production is particularly fraught with uncertainty due to its reliance on biological processes and that differences in bargaining power means a minimum standard of protection against certain manifestly unfair trading practices should be introduced.  
It was agreed that Unfair Trading Practices (UTPs) occur throughout the food supply chain with smaller operators more vulnerable to these practices due to weaker bargaining power compared to larger operators. The Directive distinguishes between two types of trading practices. Those that may be unfair in nature, but may be acceptable if clearly agreed by the parties, and become unfair only when applied without agreement such as: late payment for perishable foods; short notice cancellation of orders of perishable foods, unilaterally and retroactively changing the terms of the supply agreement and having a supplier pay for the wastage of food products on the buyer’s premises not caused by the negligence or fault of the supplier.  Further additional trading practices would be prohibited unless agreed in clear and unambiguous terms in the supply agreement; such as, returning unsold food products to the supplier, charging the supplier for stocking, displaying or listing their products by the buyer, charging the supplier for the promotion of products sold by the buyer and charging the supplier for the marketing of products by the buyer.
A directive rather than a regulation provides some discretion for member states whilst providing an EU wide framework.  
Member states would be obliged to designate a public authority charged with enforcing the rules. This body would be able to conduct investigations and impose fines in case of proven infringements. The enforcement authorities of member states would have to cooperate with each other and the Commission would facilitate this cooperation and manage a website for the exchange of information. The Directive allows individual Member States to introduce stricter rules designed to combat unfair trading practices than those laid down in the Directive to ensure a higher level of protection.


https://www.food-law-blog.co.uk/2019/06/what-next-for-the-agricultural-food-supply-chain-update-on-grocery-code-adjudicator-and-the-eu-direc.html


20/06/2019

CI BEVIAMO UNO “YOGA”?


La decisione del 02/04/2019 (resa nel procedimento di opposizione n. B 2 994 823) ha riconosciuto che il marchio YOGA gode di notorietà nella Comunità Europea per “succhi di frutta”.
Che il marchio YOGA, nato in Italia intorno agli anni 50 e da allora utilizzato intensamente ed ininterrottamente, fosse un marchio noto, lo sapevamo tutti, quindi niente di nuovo sotto il sole…
….o no?
Purtroppo non è per niente automatico che certe situazioni di fatto siano riconosciute giuridicamente.
Perché questo accada, occorre che vi sia un conflitto e che questo conflitto sfoci in una decisione o in una sentenza di un organo amministrativo o giurisdizionale. Spesso (oggi, almeno in questo settore, sempre di più) i conflitti vengono risolti in sede stragiudiziale (a seguito di diffide o alcune volte con accordi di coesistenza) ed è sempre più raro che si abbia l’occasione di portare un giudice ad emettere un provvedimento.
Se poi consideriamo che l’Ufficio Europeo (che ha emesso la decisione in questione) fa un’applicazione molto rigida del principio di “economia procedimentale”, portare lo stesso a pronunciarsi su di un argomento che implica un dispendio procedimentale notevole, è cosa particolarmente ardua….eppure ci siamo riusciti!
Partiamo dall’economia procedimentale: il primo ostacolo per giungere ad una pronuncia di questo genere.
Questo principio fa sì che l’EUIPO possa giudicare un’opposizione sulla base del “motivo giuridico più efficace” ossia, per riportare quanto prevedono le linee giuda dell’EUIPO stesso, “l’impedimento che offre all’Ufficio il modo più semplice per respingere la registrazione della domanda”.
Il principale motivo di conflitto tra marchi è dato dalla somiglianza tra gli stessi e dalla identità o affinità dei loro prodotti o servizi: la domanda di marchio viene respinta quanto tale situazione è idonea a fare sì che il consumatore dei medesimi possa confondere un marchio con l’altro. Si parla di “rischio di confusione”.
Il rischio di confusione è un motivo facilmente accertabile, in quanto per verificare la sussistenza dello stesso l’EUIPO applica principi giuridici e non deve (in linea di massima) analizzare documentazioni di fatto.
La notorietà del marchio è invece un motivo di opposizione che richiede accertamenti di fatto copiosi ed un’analisi delle motivazioni che li supportano molto più articolata.
La notorietà ha anche presupposti diversi.
Occorre sì che i marchi in conflitto siano identici o simili.
Non occorre però che i prodotti siano identici o affini, in quanto, se il marchio viene riconosciuto come notorio, avrà la possibilità di contrastare anche prodotti o servizi “non simili” a quelli dallo stesso rivendicato.
Inoltre, il rischio che il consumatore confonda i marchi in conflitto, non è un requisito che rileva nel caso si voglia azionare la notorietà. Ciò che rileva è invece che, delle due l’una, o il titolare del marchio posteriore tragga indebito vantaggio dalla notorietà del marchio anteriore, oppure che la presenza del marchio posteriore arrechi pregiudizio alla notorietà del marchio noto.
Tutto questo implica che ogniqualvolta venga azionato come motivo di opposizione il rischio di confusione, l’EUIPO farà il possibile per risolvere la controversia limitandosi all’analisi di quest’ultimo (semplicemente perché più facile da accertare), non analizzando le motivazioni sottese alla notorietà.
Conseguentemente non è assolutamente facile “costringere” l’Ufficio a pronunciarsi sulla notorietà: bisogna che “capiti” una controversia nella quale sia strategicamente conveniente azionare solo la stessa, prescindendo dal motivo più facile e lineare che è il rischio di confusione.
Conserve Italia era da tempo appostata in attesa della preda da aggredire e quando è passata, non si è fatta perdere la (ardua e difficile, ma coraggiosa) occasione di “azzannarla” con la notorietà.
La preda era un marchio YOGA depositato per “birre”.
L’indebito vantaggio era costituito dal fatto che il titolare della domanda di marchio potesse approfittare degli investimenti fatti da Conserve Italia, per quasi 70 anni, per promuovere il marchio YOGA.
Il pregiudizio era dato dal fatto che una bevanda alcolica come la “birra” venisse affiancata ad un succo di frutta per il quale Conserve Italia aveva da sempre fatto campagne promozionali salutistiche (principalmente nel campo dello sport) oltre che destinate ai bambini.
L’avere confidato sul fatto che il proprio marchio godesse di notorietà, e quindi evitando di percorrere la strada più lineare e semplice del rischio di confusione, ha permesso a Conserve Italia di ottenere il tanto ambito trofeo: marchio YOGA riconosciuto notorio, non solo in Italia, ma in tutta la Comunità Europea!
Autore: Claudio Balboni 
Articolo pubblicato in Bugnion News n.34 (Maggio 2019)

18/06/2019

Registering Chinese translations or transliterations of foreign trademarks






Introduction
As Chinese (Mandarin) is Taiwan's national language, many foreign companies use Chinese translations or transliterations of their foreign brands (trademarks) in order to expand into the Taiwanese market and allow consumers in Taiwan to identify their products more easily.
However, as Chinese characters can have different pronunciations and meanings, there are often multiple ways of translating or transliterating foreign trademarks into Chinese.
Similarity may not exist when comparing a foreign trademark with its Chinese translated or transliterated version using the traditional standard of trademark similarity. As such, when Chinese translated or transliterated versions of foreign trademarks are applied for or registered in bad faith, it is unclear whether there is a likelihood of confusion according to current practice in Taiwan.
The Intellectual Property Court recently addressed this issue in an administrative case relating to a trademark opposition.
Facts
The opponent of the disputed trademark registration was a French cosmetics company, while the registrant was the cosmetics company's distributor in Taiwan.
The cosmetics company determined a Chinese translation of its foreign trademark and ordered the distributor not to use any other trademark or IP right relating to that mark. However, the distributor did not use this Chinese translation.
The distributor claimed that, due to a marketing need, it had created its own Chinese translation of the foreign trademark and had used the cosmetics company's Chinese translation only during the distribution period.
The cosmetics company sought to end its distribution relationship with the distributor and discovered that the distributor had registered its own Chinese version of the foreign trademark (the disputed trademark).
The distributor argued that:
  • the disputed trademark had been an independent creation;
  • the Chinese translation of the cosmetics company's foreign trademark was pronounced differently to the Chinese translation used in the disputed trademark; and
  • no similarity existed between the disputed trademark and the cosmetics company's foreign trademark.
Decision
The Intellectual Property Court highlighted the fact that the distributor and its related company had continually used the disputed trademark and the cosmetics company's foreign trademark. Further, the distributor had regularly added the word 'French' to the disputed trademark to represent the cosmetics company's product.
The court also learned that the distributor had filed and used the cosmetics company's Chinese translation in its registration for the disputed trademark.
In view of these findings, the court declared that the distributor had wilfully attempted to confuse consumers in Taiwan and registered the disputed trademark in bad faith. Therefore, the disputed trademark could not be protected under the Trademark Act.
Comment
This decision clarifies that where a registrant applies to register a Chinese translated or transliterated version of a foreign trademark despite having knowledge of a likelihood of confusion, the application will be considered to have been filed in bad faith and will be deemed invalid.
This article was first published by the International Law Office, a premium online legal update service for major companies and law firms worldwide. 


15/06/2019

USA - APHIS Proposes Revised Regulatory Framework Regarding The Movement Of Certain Genetically Engineered



The U.S. Department of Agriculture’s (USDA) Animal and Plant Health Inspection Service (APHIS) issued a proposed rule on June 6, 2019, on the movement of certain genetically engineered (GE) organisms.  84 Fed. Reg. 26514.  The proposed rule would revise the regulations regarding the movement, including the importation, interstate movement, and environmental release of certain GE organisms in response to advances in genetic engineering and APHIS’ understanding of the plant pest risk posed by them, “thereby reducing regulatory burden for developers of organisms that are unlikely to pose plant pest risks.”  APHIS notes that the proposed rule “would mark the first comprehensive revision of the regulations since they were established in 1987.”  It would provide “a clear, predictable, and efficient regulatory pathway for innovators, facilitating the development of new and novel [GE] organisms that are unlikely to pose plant pest risks.”  Comments on the proposed rule are due by August 5, 2019. For further details, see the Bergeson & Campbell, P.C. (B&C) memorandum here